Le cioche 'd Poirin



Numero Cioche: 01/03/2023
Quaresima, primavera della fede - Domenico Cravero
“Protesi alla gioia pasquale, sulle orme di Cristo Signore”. Così inizia l’inno liturgico quaresimale: “E’ tempo di ascoltare la voce dello Spirito”. La Quaresima non significa quindi pesantezza e tristezza. Assomiglia piuttosto agli inizi della primavera, dove la natura si rinnova e la vita dei campi rinasce (se piove). La Quaresima celebra il fiorire del nuovo: occasione per un digiuno di purificazione non solo materiale, ma interiore. Il capo cosparso di cenere ad umile riconoscimento della precarietà della vita e del valore del sacrificio (il dono della vita) contrasta così tanto con le continue esibizioni narcisistiche del nostro tempo da essere un’immagine provocatoria da proporre con convinzione. Il tempo di Quaresima è fatto per sperare, per tornare a rivolgere lo sguardo alla pazienza di Dio, che continua a prendersi cura della sua creazione, mentre noi l’abbiamo spesso maltrattata. È un dono di grazia per rigenerarci, è abitare un angolo di deserto, per diventare più riflessivi e lasciar emergere le domande che ci rendono umani, anche quando ci tormentano. Il digiuno e la rinuncia al superfluo si collegano alla pratica della giustizia e della solidale condivisione dei beni, su scala nazionale e mondiale. Il nostro tempo è caratterizzato da un consumo alimentare, che spesso giunge allo spreco e da spese a volte solo voluttuarie, e insieme, da diffuse e gravi forme di povertà o addirittura di miseria materiale, culturale, morale e spirituale. In particolare, il divario tra Nord e Sud del mondo presenta abitualmente una diversità sfacciata di condizioni economiche e sociali. Tutti ci sentiamo responsabili e sollecitati ad assumere uno stile di vita improntato a una maggiore sobrietà e a risvegliare una forte sensibilità per gesti generosi verso coloro che vivono nell’indigenza e nella miseria.
Non ci sono però solo povertà economiche. Ancora più drammatiche sono quelle spirituali del nostro tempo. Nell’attuale situazione in cui tutto sembra fragile e incerto, parlare di speranza potrebbe sembrare una provocazione. Guerre, sconquassi della natura, modificazione del clima, squilibri economici lasciano l’amarezza dell’impotenza. Viviamo l’età dell’ansia. C’è più paura di vivere che di morire. Per resistere alla rassegnazione impotente bisogna lasciarsi condurre dallo Spirito di Gesù in disparte e in alto, distaccandosi dalle mediocrità e dalle vanità. Per sopportare il Golgota c’è bisogno del Tabor, il monte della trasfigurazione, cioè dell’intimità con il Maestro. Attingendo a questa intimità, che è l’autentica preghiera, si può accettare di attraversare la gravità di questo momento. Si può sopportare tanta sofferenza quanta felicità si è prima conosciuta. Per questo abbiamo bisogno di sperimentare che la quaresima è gioia e che la Pasqua che prepariamo è la grazia di trasformare la tragica pressione del male in una forza per risollevare il mondo. Gesù è sempre impegnato a riattivare il desiderio vitale di quelli che incontra, come ci insegnano i suoi miracoli.
Lo spazio di rigenerazione quaresimale è però anche un rischio: potrebbe diventare fuga da noi stessi, ricerca di soluzioni illusorie. Il deserto diventerebbe subito “tentazione”. Capitò così anche a Gesù. Anche lui visse il tempo dalla scelta, tra il congedo dalla sua famiglia a Nazareth e l’inizio della sua missione di Maestro. Per vincere questa tentazione dobbiamo trovare il tempo per stare con lui, riducendo per esempio la quantità di parole usate a vanvera ogni giorno su social e chat varie, la quantità di lamentele e polemiche che esprimiamo su ogni cosa, senza accorgerci che quel che giudichiamo negli altri non è altro che lo specchio di quelli che siamo noi.
Lasciamo che Cristo ci prenda per mano e ci conduca dove Lui solo sa. La quaresima è il tempo dell’assoluta novità della Grazia!
Per i cristiani, aver ricevuto le ceneri in segno di penitenza è anche un appello da prepararsi per celebrare il Sacramento del Perdono, il "secondo battesimo", per la remissione dei peccati. Questo sacramento va però riscoperto e preparato molto bene, anche con ritualità adatte, come faremo nella celebrazione comunitaria del lunedì santo 3 aprile (20,45).



La parola più bella - Domenico Cravero
“Amore” la parola più bella che ci piace sentire, oggi è diventata sospetta. Non si sa più che cosa voglia precisamente dire. Sta diventando una parola inaffidabile. Come non avesse più certezza e non si sapesse fino a quando.
Abbiamo bisogno di ritornare all’amore che è ciò che ci fa vivere, e il modo migliore è cantarlo.
Quando cantiamo l’amore è perché lo proviamo e vogliamo che duri.
Cantiamo l’amore in un luogo pubblico perché l’amore è il più importante bene comune che abbiamo. Dall’amore fiorisce la vita, nasce il mondo.
Sindaca e parroco insieme perché l’amore è il capitale più prezioso che le istituzioni che rappresentiamo ricevono dalla tradizione e dal costume e che abbiamo il dovere di trasmettere al futuro di questa città.
Per cantare l’amore ci vogliono gli artisti, la vera grazia di questa sera. Essi hanno una missione insostituibile: farci vivere di poesia. Non ci basta il pane, non basta neppure la musica da ascoltare: abbiamo bisogno di cantare. Senza il pane non si vive ma senza poesia non siamo felici.
Grazia, gratuità è la testimonianza per dirci che l’amore è l’unica cosa che non si può né comprare né pretendere ma solo regalare.
Attraverso la poesia del canto abbiamo bisogno di essere aiutati a considerare il corpo e l’eros come parti integranti di ciò che significa essere umani, a considerare l’energia di vita che sgorga dalla sessualità come segno di quella luce per l’umanità che è custodita da sempre nel divino.
Dire “ti amo” non è un’affermazione come un’altra. Parole d’amore non sono quelle che lo descrivono ma quelle che lo donano. Il canto ha questo potere.
Noi siamo nati nel canto. Abbiamo imparato a cantare prima che a parlare. Fin dai primi mesi, sentirci amati diventava spontaneamente canto: la lallazione. Già prima ancora: avvolti nel liquido dell’utero materno sentivamo il ritmo del battito del cuore, la voce di chi ci portava e di chi ella incontrava. È nata lì la musica, la stessa che questa sera ci prenderà, ci commuoverà, quella che unirà le nostre menti e corpi in un flusso magico, in un vibrazione unica. Plasmerà il nostro gusto estetico, ci libererà dai pregiudizi, ci unirà, ci fortificherà.
Non si canta solo il bello della vita. C’è anche spazio per l’indignazione e la disperazione, per la tristezza e la malinconia ma finché si canta, la speranza è salva.
L’amore è la forza della vita, origine delle cose più belle e causa di quelle più tristi. Senza amore tutto è più difficile. In realtà, il difficile è amare. Le cose belle sono tutte difficili e se l’amore è quanto di più bello ci offra la vita, sarà anche l’impresa più difficile.
Ci siamo calati in questo viaggio mozzafiato.
Questa magica serata è solo un inizio. Quello che abbiamo sentito in noi questa sera è che nell’amore è custodito il destino dell’umanità. Possiamo quindi dedicare il canto di questa sera ai prossimi nuovi nati nella nostra città. Diceva Gunther Anders: “Saluta i non ancora nati come se fossero tuoi vicini di casa”, perché chi canta crede nel futuro e lo prepara.
Il regalo più bello a chi nascerà nei prossimi mesi sarà l’accoglienza di una Poirino, incanto di una città che canta. In parrocchia accogliamo ogni nascita con il suono della campana. Il canto fa ancora di più.
Questa serata è un inizio. Il prossimo appuntamento sarà Giovedì 20 aprile su un tema divisivo che dobbiamo cercare di affrontare insieme: omosessualità e transgender.


Numero Cioche: 01/05/2023
Il volto della mamma e la ferita del papà - Domenico Cravero
Dove inizia l’umano? Cosa c’è di più bello nella vita? Quando per la prima volta la vita si dona in pienezza? Non ci sono dubbi. La prima intensa esperienza emozionale dell’umano è legata alla nutrizione. Per il neonato il cibo è un bisogno assoluto e totale, una domanda nuda e cruda. Ma non è solo il seno della mamma a rappresentare l'intima gratificazione del bambino: in quanto fonte di nutrimento, esso può essere facilmente sostituito. Nei gesti e nei riti della nutrizione avviene altro: il bambino chiama, la mamma risponde; il piccolo urla la sua fame, la mamma accorre alla sua domanda e la soddisfa. La mamma si avvicina con il suo volto, lo stringe tra le sue braccia, gli offre il calore del suo corpo, lo avvolge del suo affetto. Il bambino la riconosce da subito e si sente rassicurato e contenuto. Man mano attraverso il volto della mamma, la sua presenza e le sue attenzioni, il bambino impara ad apprezzare non solo il cibo, ma più ancora l'affetto e la tenerezza di chi glielo assicura. È il volto della mamma che rende buono il latte, che fa amare la vita. Gradualmente, alla manifestazione corporea e fisiologica di un bisogno, si accompagna (fino anche a sostituirla) una vera e propria esperienza spirituale: una domanda d’amore. Il latte è il simbolo del bisogno (per vivere bisogna alimentarsi). Il volto è il luogo simbolico della felicità e del desiderio (solo l’amore rende bella la vita). Il piacere del bambino è, insieme, il piacere della mamma: anche la mamma si rivolge al bambino e chiede. Attende che lui la riconosca, che le sorrida, che partecipi a quel dialogo che non è fatto di parole, ma usa il linguaggio immediato dell'intimità e dell'affetto. Il bambino s'inscrive nel piacere e nel desiderio della mamma. La mamma gode del godimento del suo bambino. Il piacere si costruisce per entrambi attorno alla realizzazione di un bisogno, il cibo, ma subito diventa affetto e amore reciproci. Entrambi nascono all’umano!
Saziato di cibo, appagato nella domanda d'amore, il bambino vive, tra le braccia esclusive della mamma, un'esperienza di intima fusione, un appagamento così intenso che non vorrebbe perdere mai. Il piacere diventa presto canto (la lallazione); nascono le prime parole, si abbozzano i primi pensieri. La nascita all’umano però è un percorso travagliato. Di cibo si può essere presto sazi, ma dell'affetto non è dato colmare la misura. La mamma che ha il potere di soddisfare il suo bambino, è costretta a deluderlo, a farlo piangere e disperare, quando si nega, quando diventa inaccessibile e appare perduta. Quaggiù, nulla ci è dato in forma pura: lo smisuratamente bello (la mamma che ritorna) si alterna al terribilmente angoscioso (la mamma che non c’è). Finché questo vuoto non sarà colmato e la mancanza capita, il bambino non potrà crescere come persona autonoma.
Il bambino imparerà a riconoscere anche il papà. Anch’egli è capace a prendersi cura del bambino, a rispondere ai suoi bisogni, a farlo sorridere e divertire. Ma, circa il godimento, vissuto e donato, non è in grado, nella prima infanzia, di competere con la mamma. La funzione nutritiva simbolica e affettiva non può essere condivisa allo stesso modo. Per tutta la vita, la mamma rimarrà immagine e metafora dell’accudimento e dell’affetto, simbolo della disponibilità e dell’appagamento. La sua grandezza è però anche un rischio mortale. Nella sua onnipotenza potrebbe impossessarsi, soffocare, distruggere la libertà della sua creatura. Una mamma possessiva o ansiogena non aiuta a crescere. Fa danno. Il papà produce una mancanza, opera un taglio liberatore. Ripete ogni volta quel dono che già l’antichità aveva riconosciuto e celebrato nella mitologia del gesto di Ettore che prende il piccolo Astianatte dalle braccia della mamma e lo eleva al cielo. La separazione produce autonomia, l’autonomia libertà. Il dono del papà non è un’aggiunta di piacere ma una ferità che ha però il potere di rendere liberi. L’emozione della mamma consiste nell’allattare, nel nutrire, nel curare con il cibo e l’affetto. Il dono del papà è legato allo svezzamento: generare all’autonomia. Il papà rappresenta la Legge (ciò che è giusto), i “no” che rendono liberi. Attaccamento e separazione, affetto e libertà, sono il doppio movimento della nascita all’umano. Per imparare a parlare e quindi a pensare, bisogna smettere di poppare. La mamma è la forza della natura, il papà è il dono della cultura.
Per questo l’atto d’amore definitivo della madre è dare un padre stabile al proprio figlio; “matrimonio” (matris munus) significa: “il dono della madre”. Per la felicità del bambino ci vogliono una mamma e un papà.
Sulla croce Gesù ha dato all’umanità una mamma perché non smettiamo mai di credere che siamo nati non per morire ma per sparire, dopo l’ultima separazione, nell’abbraccio del Padre-Misericordia. Il nostro cuore rimarrà inquieto finché non riposerà in Lui (s. Agostino). Come un bambino in braccio alla sua mamma.





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