Parrocchia di Poirino




TEMA: Imparare dal dolore. Percorso con i genitori per ricominciare. - in data: 20/04/2020

Stare tutti insieme a casa è bello ma è anche una gran fatica. Si sta bene a casa quando si sa che si può poi uscire...
Abbiamo tutti una gran vogli di ricominciare. Impazienti ci chiediamo tutti i momenti: “ma quanto manca ancora all’alba?”. Gli scienziati e i tecnici ci consigliano di non bruciare le tappe perché potrebbe capitare di peggio.
Non bruciare le tappe non significa solo conservare la massima prudenza perché il virus è sempre in agguato. Vuol dire anche, per dei genitori responsabili, non dimenticare quello che stiamo ancora vivendo e cominciare una verifica sincera (un profondo esame di coscienza) su ciò che abbiamo imparata da questi interminabili giorni.
Dobbiamo anche scoprire insieme, genitori e figli, che cosa significa per noi quella frase che sentiamo spesso ripetere: “Nulla sarà più come prima”.
Vi propongo un triplice cammino sui quali lavorare di qui a giugno. Una riflessione al mese su tre interrogativi:

1. Che cosa abbiamo imparato dal cumulo enorme di dolore più o meno vicino e lontano da noi: per le morti, per i ricoveri, per l’angoscia del ritrovarci così vulnerabili?
2. Che cosa abbiamo imparato dallo stare così tanto tempo, vicini gli uni agli altri nelle nostre case? Quali scoperte? Quali fatiche? Quali virtù e quali difetti?
3. Che cosa abbiamo imparato dagli errori dei nostri stili di vita prima del Covid.


Le tre domande sono attraversate da un’unica tensione educativa: se non si impara dalla vita non si acquista alcuna saggezza. Se non si rimedia agli errori commessi, questi si ripeteranno in forma peggiorata.

La nostra prima tappa è quindi: imparare a parlare del dolore.
Nei nuovi costumi sociali è meno spontaneo esprimere emozioni e affettività. La morte diventa più triste e inesprimibile e il dolore insopportabile.
Nel corso dei secoli l’umanità ha sempre cercato risposte e prodotto simboli e cultura, per aiutare le persone e i loro nuclei vitali ad affrontare il dolore e la morte. La nostra società, chiamata “del benessere”, è una società culturalmente povera. Non possiede risposte davanti alla morte; non insegna più a morire. La morte tuttavia ci costituisce come creature. Fuggire la morte significa perdere la vita. A quale condizione si può tornare all’umano? Attraverso quali percorsi educativi è possibile ritrovare fiducia e gioia nella vita? La risposta, che sperimentiamo in famiglia e che riconosciamo come il segreto della felicità, ci conduce al dono, alla gratuità, al servizio: l’amore incondizionato.
Di fronte al dolore e alla morte, il dono potrà ancora aprire una via d’uscita?
Donare la vita, potrebbe essere la risposta. In realtà la vita non è in nostro potere. Lo sanno bene i genitori: essi hanno donato la vita ai figli ma essi non potranno restituire loro questo dono. I genitori morranno. Noi possiamo solo imparare a “donare” la nostra morte, ridefinire noi stessi e l’incontro con l’altro in rapporto alla possibilità della morte.
L’epoca del tecno-nichilismo (M. Magatti) è una civiltà decadente perché porta alla morte del prossimo e quindi alla nostra. L’individualismo moderno s’interessa al ruolo dei singoli come consumatori, produttori, esecutori. La persona resta nascosta dietro la maschera sociale. Donare la morte significa accogliere la fragilità della vita e diventarne responsabili. Il dolore non è più negato ma compreso e affrontato. Il dono della morte elimina alla sua radice l’arroganza e pone davanti alla differenza irriducibile dell’altro.
Di fronte alla precarietà dell’esistenza cadono tutti gli aggettivi e rimane solo la vita come valore primario rispetto a tutti i beni che si possono godere. La vita è un bene che si riceve, non si produce; si amministra e non si possiede. Essa precede tutte le istituzioni umane. Precede anche la scienza con le sue scoperte. La vita è l’unica distinzione che conta e che stabilisce lo scarto con ciò che non è vita. Questa gratuità radicale, che deriva dalla considerazione della morte e del dolore, mette in discussione un sistema intero di stili di vita e di consuetudini, che fa dell’individuo la misura e il dominatore di ogni cosa.
Ogni sforzo compiuto per nascondere o dimenticare la realtà della morte si traduce però, paradossalmente, in perdita della voglia di vivere, in stanchezza interiore, in fuga dalla realtà. Diventa anche indifferenza verso l’altro, rigida chiusura in sé (chiamata egoismo). La responsabilità per l’altro esige che si impari a guardare la morte, a considerare così la singolarità insostituibile dell’altro, com’è colta nell’empatia.
Dalla considerazione della sofferenza può così svilupparsi una nuova coscienza, personale e sociale, aperta alle esigenze della giustizia e della solidarietà. Il rifiuto della debolezza, il disprezzo per la fragilità hanno la loro origine nell’orrore della morte, nell’impossibilità di reggerne lo sguardo. L’accettazione della vulnerabilità umana, la solidarietà con le forme deboli della vita, rigenera l’esistenza personale, orientandola al riconoscimento della verità. Occorre riconciliarsi con la morte e con la sua necessità, per compiere il primo passo di un cammino verso l’autenticità.
Il coraggio di guardare la morte in faccia è una conquista della libertà. È il modo umano di non fuggire davanti alla sua angoscia, ma di affrontarla faccia a faccia, assumendosene in qualche modo la responsabilità.
La sacralità della vita e la drammaticità della morte possono diventare non solo grandi temi di cui si parla in famiglia ma anche l’occasione in cui i genitori non trasmettono ai figli solo le loro “regole educative” ma consegnano e testimoniano la loro personale concezione della vita, quella che non può essere “insegnata”, e meno ancora imposta. Qualunque sia la visione, religiosa o atea, della vita, il modo di parlare di Dio da parte dei genitori è conseguente al modo di rispondere all’enigma (o al mistero) della morte. Oggi come sempre, attorno al dolore si scommette tutto il discorso religioso. La morte, infatti, ha un nemico: l’amore. Chi ama vuole la vita e si oppone in ogni modo alla morte. Si continua ad amare una persona anche quando non c’è più. Imparare a morire è quindi la più grande saggezza, l’unica possibilità che abbiamo per vivere intensamente ogni stagione della vita.

Azione familiare
I riti della buona notte rigenerano la base della sicurezza affettiva, della fiducia totale, della speranza. Nelle famiglie credenti questi riti comprendono la preghiera e il luogo del riposo è abitato da segni e icone religiose. Nella misteriosa sicurezza della fede, la fiducia è totale e nessuna notte può più fare paura: “Mio Dio, non mi accordare nulla, anche se imploro, l’amore che ho per Te non ha bisogno di speranza” (Teresa di Gesù).
I genitori hanno una parola particolarmente autorevole e insostituibile nel trasmettere la speranza e la sicurezza che Dio solo sa dare.