La catechesi degli adulti

 

La lettura dei segni dei tempi e il discernimento nello Spirito, non sono una semplice analisi (scientifica) della situazione della vita e della società ma comportano la disponibilità della ragione (non esclude quindi la scienza) e del cuore (richiede l’adesione convinta) ad accogliere la sfida degli avvenimenti, ad esprimere un giudizio sulla realtà alla luce della certezza della presenza reale di Cristo, nei Sacramenti, nella vita personale e nella storia.

L’adultità non è considerata oggi come un blocco monolitico perché è anch’essa segnata da una molteplicità di prove e di passaggi, da cambiamenti materiali e psicologici, da fasi di passaggio, nell’arco di una lunga vita. Gli studi di Erikson e di Levinson, per esempio, hanno introdotto per primi il concetto di fasi di passaggio, dividendo l’età adulta in tre grandi cicli di vita, il giovane adulto, l'adulto maturo e l'anziano. I periodi di passaggio e di crisi, sono anche quelli in cui la persona è più aperta al cambiamento e disponibile a rivedere e correggere le esperienze  precedenti ma anche più fragile e vulnerabile.

La fase del giovane adulto, è legata all’esercizio dell'intimità, alla capacità di stabilire legami veri e responsabili verso gli altri: è il tempo della maturità affettiva.

La seconda fase è centrata sulla generatività che non consiste soltanto nel far venire al mondo i figli ma nell’assumere la responsabilità verso chi è stato generato.

La terza fase mette la persona di fronte al fatto del tempo che passa e la impegna nell’affrontare il conflitto tra il rammarico del passato, lo sgomento della vecchiaia e l’impegno a testimoniare nella vita un frutto importante per le generazioni che seguono: la saggezza. Nel posto singolare che guadagnano nell'affetto dei nipotini, possono rigenerare se stessi, vincendo così lo spettro dell'inutilità e della solitudine.

Come avviene per l’adolescenza anche l’età adulta attraversa nella sua evoluzione processi, meno drammatici e violenti, più distesi e pacati, interpretabili secondo le fasi delle crisi di passaggio: destabilizzazione, rottura, ricomposizione. L’attraversamento di una crisi ripercorre l’itinerario di ogni iniziazione.

La vita è un continuo cambiamento che destabilizza. Si evolvono i legami familiari ed affettivi, si ridimensionano le amicizie giovanili, si stemperano certi interessi e passioni; acquista maggior peso la vita lavorativa e professionale che, a sua volta evolve e si modifica. 

I cambiamenti sono percepiti a motivo delle rotture e degli strappi che, previsti, preparati o inaspettati fanno irruzione nella vita, indipendentemente dalla propria possibilità di scelta. Le persone, se pur in condizione adulta, sperimentano così la  l’instabilità e vulnerabilità della loro condizione. La crisi genera una rottura, difficile da vivere, per il senso di paura e di inadeguatezza che produce, per i sentimenti di tristezza e di disillusione che l’accompagnano.

La resistenza e la perseveranza nella crisi, trova finalmente uno sbocco: la ricomposizione di una nuova identità interiore, la realizzazione di nuovi progetti, l’apertura verso forme inedite di umanità. Un traguardo è stato realizzato, si snoda un nuovo percorso. Si esce dalla crisi con la sensazione di nuova nascita, di una personalità più matura, con la determinazione di un rapporto con la vita più disponibile, meno apprensivo. La soluzione di una crisi non è però assicurata, chi non la oltrepassa anziché aprire una nuova pagina, torna indietro a ripetere sterilmente il passato.

L’avventura della vita adulta, nelle sue conquiste o nelle regressioni  è descritta, in  ogni sua fase, nella grande avventura del popolo della Bibbia, è rispecchiata nella narrazione della Parola di Dio.

La fedeltà e l’adesione al Signore ha sempre due momenti: il primo, in cui Dio chiama, rivelandosi nelle vicende della vita nei modi più imprevedibili e il secondo in cui il credente risponde, decidendosi verso di Lui. A volte Dio tace e si viene provati dal suo silenzio, fino a domandare, intimamente turbati: “Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?” (Es. 17.7). Resistere nel dubbio è la condizione necessaria per mantenere una costante apertura alla novità: il Signore c’è e viene, “ciò che tarda avverrà”(Abacuc 2,3).

I progressi nella fede passano normalmente attraverso la crisi.

Il senso della promessa, nella storia biblica, diventa chiaro a partire da un evento di liberazione: le grandi imprese narrate nell’Esodo. Un popolo scopre la presenza di Dio come “Colui che è” e lo scorge nei segni della lotta per il riconoscimento. Individua in Lui l’autentica libertà, con Lui stringe un’alleanza alla quale si impegna a rimanere fedele. È un Dio che parla e che ama Colui che si rivela nella storia, che rispetta e sorregge la libertà delle creature in cui ha impresso la sua immagine e che chiama alla sua somiglianza. La libertà concretamente conquistata, però, è costantemente minacciata e svuotata dalle incoerenze interne o perduta nelle sconfitte militari esterne. Il ricordo del passato, il tempo della prima alleanza, rischia così, spesso, di trasformarsi in nostalgia o di annullarsi nella rassegnazione. I profeti insegnano a resistere, a rimanere fedeli, ad alimentare costantemente la speranza:

“Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse (Is. 9,1)”.

La solenne visione di Isaia, (comune anche ad altri profeti: Mi. 4,1-3; Is. 56,6-8; Is. 60, 11-14; Zc. 8,20) esprime bene  il sogno messianico dell’ebraismo maturo che Gesù realizzerà e porterà a pienezza: la terra promessa sarà una terra di comunione, senza umiliazioni e morte, sarà una festa di abbondanza e di libertà. Il profeta del libro della Consolazione parla ai suoi connazionali nel triste periodo dell’esilio. E’ il tempo della sconfitta e della vergogna, della perdita di se stessi come singoli e come popolo. La rassegnazione e la nostalgia (“«Figlio dell'uomo, queste ossa sono tutta la gente d'Israele. Ecco, essi vanno dicendo: Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti.” Ez. 37,11) ne sono le conseguenze distruttive. A queste il profeta oppone una Parola forte che tocca i cuori e ricrea la possibilità di accogliere la speranza. Una Parola che ripropone la promessa e l’annuncia vicina. Il popolo ritorna dalla schiavitù, gli esuli ritrovano le loro città. La promessa si realizza, il sogno si avvera: ma la fatica non è finita. Tutto è da ricostruire, tutto da ricominciare. Il tempio è in rovina, il paese è disorientato; mancano le risorse, viene meno anche la solidarietà. Riprende la guerra: ai confini premono nuovi nemici. La gioia di un sogno a portata di mano man mano si spegne... Ancora una volta la promessa va rilanciata, sostenuta da un orizzonte ancora più impegnativo, ancorata a una fede più alta e resistente: non solo un nuovo popolo ma un nuovo mondo, un nuovo progetto di vita.

Ogni volta la Parola di Dio è come la stella polare per i naviganti perduti nell’oceano. La stella è sempre oltre, al di là, inaccessibile per chi è ancora in viaggio eppure reale e certa, punto di riferimento immutabile per non perdersi nel buio e nel vuoto.

In Gesù il sogno di Dio si compie come rivelazione piena: “e uscì una voce dalla nube «Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!»” (Mc. 9,7). Eppure in lui la condizione di Figlio di Dio è come nascosta, “si è spogliato della sua uguaglianza con Dio” (Fil. 2,7).

Nel suo essere uomo si potevano però cogliere i segni di Dio in una condizione particolare, quella del dono e del servizio, portati avanti “fino alla morte e alla morte in croce” (Fil. 2,8).La Giustizia di Dio è in azione e si rivela attraverso chi pratica la giustizia ogni giorno, il suo Amore si esprime in ogni persona che ha cura del suo simile, la Verità del Regno si svela nella fatica del pensiero, nell’impegno di costruire rapporti autentici, di sostenere istituzioni giuste, di prendere in carico chi non è riconosciuto...

I segni della Promessa sono sparsi ovunque: vanno riconosciuti e sviluppati perché sono la voce di Dio stesso. L’inquietudine e il disorientamento vengono così “rovesciati”, si colgono altre cose: emergono le tracce del positivo, le indicazioni della novità, i segni di una Presenza. La “verità tutta intera” (Gv. 16, 12- 15) promessa da Cristo non è neppure “racchiudibile” nel Vangelo di Gesù, nel senso  il Vangelo non ha ancora “concluso” la sua storia. La storia umana, infatti, è mistero: contiene sempre qualcosa che è  “al di là”, prefigurato in ciò che è “al di qua”. Per svolgere questo compito, “è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche”. (GS n. 3 e 4)

 

La vita come culto

Il sogno di Dio si realizza concretamente nella storia ma è possibile coglierlo solo attraverso tracce e segni perché è confuso in mezzo alle contraddizioni della storia della libertà umana e del suo peccato. Il luogo in cui Dio quindi si rivela nella sua invisibile presenza, il tempo in cui non solo si colgono le tracce del suo svelarsi ma scorgono i lineamenti del suo volto è la celebrazione dei Sacramenti.

Il mistero eucaristico nella vita è memoriale di Cristo: in lui la vita stessa dell’adulto diventa un’esperienza pasquale, un avvenimento di morte e di vita. Gli adulti sono assillati da problemi concreti della vita quotidiana. Anche Dio è interessato alla vita delle persone (“Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze” Es. 3,7). La catechesi tende a volte a non “vedere” le persone come  sono, ma a “volerle” fuori della loro concretezza.

La crisi e la fatica del vivere occupano un ruolo essenziale nella maturazione della fede. Vissute nei Sacramenti diventano eventi spirituali perché la vita appaia sempre nella sua pienezza di senso, non solo individuale.

Il compito più arduo della catechesi rimane quindi quello di costruire una nuova casa per la fede, una cultura in cui essa possa esprimersi, un ambiente vitale che diventi anche costume pubblico. La formazione della fede richiede una comunità cristiana capace di sostenere la formazione della coscienza credente entro un mondo in rapido mutamento, che da una parte appare chiuso alla fede, dall’altra si dimostra ancora affascinato dai suoi segni (per esempio la santità) e attratta dai suoi simboli (la religiosità popolare, le forme persistenti di “religione” civile. Nelle epoche storiche in cui il costume cristiano impregnava la vita delle famiglie l’adesione di fede poteva essere riassunta come consenso ad una dottrina (l’antico catechismo). Oggi assistiamo ad una crisi semantica senza precedenti. La fede deve essere ogni volta rigenerata nel credente come adesione a Cristo, come incontro con Dio stesso. La risposta credente alla tracce della trascendenza riconosciute come irruzione di Dio nell’esperienza della fede, si realizza mediante l’adesione della vita, e non solo mediante l’assenso a singole verità di fede. La liturgia è il luogo non solo della festa della fede (o della comunità) ma soprattutto dell’incontro reale con il Signore e dell’incontro reale con se stessi. Riconoscere il Signore è trovare, infatti, il senso di sé, vedere la propria vita trasformata.

La Chiesa antica era preoccupata che i convertiti al cristianesimo non si limitassero a proclamare il nuovo credo, ma imparassero a pregare, perché il contenuto della fede, creduto e difeso, fosse soprattutto celebrato, attraverso i segni liturgici. La scelta della Chiesa fu giusta ed efficace: la vittoria sul paganesimo avvenne soprattutto attraverso la liturgia, che è la celebrazione delle Verità della fede.

La cultura moderna ha pochi strumenti per esprimere la dimensione del mistero, al di là di un’indefinita fede nel “progresso” o di un’alterna euforia per la novità. Ogni segno trascendente provoca un irresistibile bisogno di  essere “spiegato “ e smascherato come un comune processo empirico. L’ideologia (o l’integralismo religioso), da parte sua, sfrutta la “verità” del mistero come simbolo forte di identificazione e contrapposizione. Il linguaggio della fede coltiva, invece, il senso alto del mistero che ha il volto luminoso dell’Amore. Il Mistero celebrato nei Sacramenti si accompagna sempre con la proclamazione della Verità della fede, una Verità che interpella la vita. I riti cristiani non potrebbero svolgersi senza la disponibilità all’ascolto della Parola di Dio.

La fede celebrata, attraverso la ritualità, fa vivere come ordinata e sensata l’esperienza del mondo che, diversamente, appare dispersa nella sua inestricabile complessità.

La fede autenticamente celebrata produce sempre un costume di vita capace di integrare le norme sociali all’agire concreto degli individui, dando un fondamento non negoziabile ai valori etici.

Il cristianesimo presenta la particolarità di concepire l’etica alla maniera del culto. Non qualsiasi culto però, solo quello inaugurato da Cristo attraverso il mistero pasquale: la vita cambia attraverso il dono di sé, sull’esempio del Signore Gesù. Il culto cristiano è culto della vita. Le celebrazioni liturgiche sono il luogo esperienziale, rituale e comunitario, della comprensione della vita cristiana come culto. La prova d’amore come risposta all’amore di Cristo è l’”obbedienza ai comandamenti”. Gesù esclude che ci si possa dire religiosi quando si è incoerenti nella propria pratica secolare: affettiva, economica, amministrativa, lavorativa. La tentazione di separare il momento del culto dalla pratica della vita è ben presente nei racconti evangelici. Le stesse tentazioni di Gesù, nella sua esperienza del deserto, sono l’indicazione che si rimane fedeli alla volontà del Padre solo nella fedeltà ad un preciso stile di vita. Non c’è quindi sacramento che non entri anche in comunicazione con la storia e la vita del mondo.

 

- Assumere (Vedere)

 

 

RdV

 

Il culto della vita

L’efficacia etica dei Sacramenti

Gesù, modello di vita piena

Assumere

(Vedere)

Il rito sublimemente “inutile”

La qualità della vita

La vita bella

 

Nella condizione adulta la quotidianità della vita è spesa prevalentemente nel lavoro, nella professione. Da solo il lavoro, tuttavia, non può dare senso alla vita e le sue promesse di salvezza (denaro, benessere, progresso ... ) sono anche un pericoloso inganno. Il lavoro è innanzi tutto necessità (si lavora per vivere...) ma se esaurisse a tale condizione, l’esperienza lavorativa risulterebbe depauperata ed alienante (si finirebbe a vivere per lavorare). L’attività umana può aprirsi alla trascendenza: a questo livello si riscatta dalla maledizione della pura necessità, acquisisce nuovi significati e diventa, così, possibile la sua trasformazione. Simone Weil, a partire dalla sua esperienza operaia, aveva così sintetizzato la sua intensa analisi delle condizioni essenziali per un lavoro non servile:

“I lavoratori hanno bisogno più di poesia che di pane. Bisogno che la loro vita sia una poesia. Bisogno di una luce di eternità. Solo la religione può essere la fonte di questa poesia.  (...) La schiavitù è il lavoro senza luce di eternità, senza poesia, senza religione. Era la grande sventura degli schiavi dell’Impero romano. Che la luce eterna dia, non una ragione di vivere e di lavorare, ma una pienezza che dispensa dal cercare tale ragione. In mancanza di questo, gli unici stimoli sono la costrizione ed il guadagno. La costrizione, che implica l’oppressione del popolo. Il guadagno, che implica la corruzione del popolo”[1].

Nell’esperienza biblica il compimento del lavoro, la sua garanzia di “umanità” è il sabato, giorno del riposo, del godimento, nella ricerca dell’unica cosa necessaria a dare felicità e senso: Dio. L’Eucaristia domenicale svela al cristiano il volto luminoso della fatica quotidiana: è possibile vivere il lavoro (ma anche lo studio, l’impegno, il servizio) come un sacramento dell’amore e della comunione. La spiritualità del cristiano laico consiste nella ricerca di quegli intermediari che rendono possibile  trovare, iscritte nel concreto, le espressioni del senso e della luce (della “poesia”) che riscattano il significato esclusivamente materiale della vita. Le tracce della trascendenza impediscono, per esempio, che l’economia si riduca a un sistema chiuso al valore delle persone, in quanto totalmente determinata dai giochi della concorrenza e della prestazione. La presenza dello Spirito si rivela nell’esigenza ineludibile e nell’attesa profonda che ogni persona umana avverte in sé di non venire schiacciata dalla legge della necessità, di non essere alienata nella pura materialità. I suoi frutti si esprimono nella ricerca ostinata delle condizioni di un lavoro non servile, che, pur nella fatica e nella precarietà, si mantenga sempre attività umana. L’efficacia dei sacramenti cristiani produce la resistenza alla rassegnazione e si pone come garanzia della qualità della vita: “Fiorisci dove sei stato seminato”: “ovunque tu sei, puoi agire”. “Non fare della riuscita (carriera, stipendio...) il tuo obiettivo”. “Quello che cerchi per te, cercalo per tutti“ (la virtù della solidarietà). “Quello che puoi fare tu, non pretenderlo dagli altri (la virtù della sussidiarietà)”.

Così la festa “entra” nel lavoro che, a sua volta, prepara la festa.

Nella celebrazione liturgica, culto della vita, la ferialità e entra nel godimento del sabato,  l’impegno operativo cede il posto alla preghiera, la prassi umana alla dossologia (l’azione che dà gloria). Nella sospensione dell’attività umana si rende percettibile la traccia della trascendenza, i lineamenti del “Totalmente Altro”.

La ritualità è il linguaggio umano che stacca dalla routine della vita quotidiana, senza però uscire dalla concretezza, anzi immergendosi interiormente. Esteriormente, infatti, il rito rappresenta un tempo improduttivo, un momento “inutile”. Il fine dell’azione liturgica è esclusivamente la gloria di Dio e la comunione umana con Lui. La celebrazione non ha alcuna esigenza operativa, nemmeno di educazione morale o di promozione dello stare insieme. Il primo atto di culto è significativamente la professione della fede, il “sacrificio di lode a Dio, il frutto di labbra che confessano il suo nome” (Ebrei, 13,15). Tutto è strumentale all’incontro con l’”invisibile Presenza” e non alla realizzazione di un progetto comunitario, dottrinale, culturale. La totale gratuità della liturgia si esprime così nello spazio della bellezza, si gioca sulle emozioni dell’incanto e del sublime. L’atto liturgico, grazie all’intuizione estetica, nei gesti che si compiono e nelle parole che sono pronunciate e ascoltate, rende percepibile l’invisibile e raccontabile l’indicibile, perché nel ricordo attualizzato degli eventi della Salvezza e della Grazia ognuno «gustare quanto è buono il Signore» (Salmo 34,9).

Il rito, dunque, sublimemente “inutile” è una creazione di senso e di comunione tra i partecipanti, dove la cura della forma non è un riempitivo ornamentale, ma una dimensione essenziale.

La postmodernità ha posto le condizioni di una nuova sensibilità per i linguaggi performativi: non soltanto la persona umana non può fare a meno di cercare orientamenti di senso e dare significati alla vita ma non può neppure rinunciare alla bellezza, in quanto esperienza fondamentale che orienta alla trascendenza (la bellezza è il “tutto” che si offre nella “parte”) il cui bisogno è tanto più sollecitato quanto più invasiva nella vita quotidiana delle persone risulta il potere della tecnologia e il dominio della scienza con il loro carico di disincanto e di minaccia.

Il Nuovo Testamento vede pienamente realizzata la beatitudine della bellezza nell’esistenza umana vissuta come Gesù Cristo, il “più bello tra i figli dell’uomo” nell’ora culminante del dono di sé sulla croce, dove “il volto sfigurato dal dolore” (Isaia 53,2)  è l’icona più trasparente dell’amore, cioè della gloria di Dio.

Gesù, infatti, è l’Uomo per eccellenza (Gv 19,5), luce apparsa dall’alto per mostrare come va vissuta l’esistenza umana (cfr. Tt.  2,11-12). Fin dall’inizio Dio ha pensato e voluto l’uomo secondo il modello del Figlio suo Gesù Cristo (cfr. Col 1,16-17).

La sua vita bella, la sua pratica di umanità ha raccontato in modo definitivo il volto di Dio che nessuno mai ha potuto vedere (Gv 1,18). La vita è stata bella perché spesa nell’amore (1 Gv. 4): solo l’esistenza donata è pienamente umana, capace quindi di esprimere Dio in pienezza.

 

 Purificare (Valutare)

 

 

RdV

 

Il culto della vita

L’efficacia etica dei Sacramenti

Gesù, modello di vita piena

Purificare

(Valutare)

Il rito che interpella

La formazione della coscienza

La vita buona

 

La revisione di vita è una pratica cristiana di discernimento: i segni dello Spirito vengono interpretati per essere attualizzati. Solo un attento sapere della fede, che è dato dalla formazione catechistica, dunque, può orientare in modo rigoroso ed efficace l’agire del cristiano nel mondo.

La progressiva riduzione dei contenuti della catechesi impoverisce fino a stravolgere la missione profetica dei cristiani nella società. La pastorale è sempre tentata dalla domanda emozionale o dalla riduzione moralistica delle parole della fede e della liturgia.

“Chi non tratta con responsabilità le cose penultime che vede, tenderà a svalutare anche quelle ultime che sono oggetto di fede”. Si potrebbe parafrasare così il versetto conosciuto della lettera di Giovanni. Secondo le parole di Gesù (Mt. 16,10-12), la quotidianità della vita è davvero “insignificante” se messa a confronto con l’eternità (il molto), eppure la costanza nel “poco” è condizione per la fedeltà al “molto”. La buona amministrare nelle cose della terra è la condizione umana che Cristo richiede come garanzia dell’apprezzamento dell’autentica ricchezza. Come nell’Uomo-Dio le due nature si devono distinguere ma non si possono separare, così, nella sequela di Cristo la fedeltà a Dio e alla terra non possono essere disgiunte.

La domanda che interpella il cristiano è, di conseguenza, precisa ed eludibile: “nella mia classe, sul mio posto di lavoro, nell’esercizio della professione, nei locali che frequento, nello sport che pratico (...) sono riconosciuto come discepolo di Cristo? Sono testimone efficace del suo mistero, segno trasparente del Vangelo, di fronte a tutti?”. La risposta non può essere semplicemente dedotta dalla Parola, dalla predicazione o dalla catechesi ma deve realizzarsi attraverso la promozione pratica del costume cristiano all’interno della società.

Questo presuppone che la pastorale parrocchiale dedichi cura e passione alla definizione di modelli positivi e praticabili di vita cristiana, di stili di vita illuminati e coerenti in cui possa concretarsi la testimonianza di fede. L’impegno è tanto più urgente quanto più diffusa è la rimozione degli interrogativi etici, tipica della cultura individualista. La testimonianza credibile della fede, quando il costume sociale non sorregge più l’adesione alla fede, richiede una vera competenza sulla vita quotidiana. Occorre che la catechesi promuova, innanzitutto, la consapevolezza del problema: le difficoltà evidenti nel correggere il distacco tra adesione di fede, celebrazione liturgica e scelte di vita dei cristiani.

Il cristiano che frequenta la parrocchia solo per le celebrazioni liturgiche non ha, infatti, sempre le risorse per riportare la sua adesione di fede alla complessità della vita. Non basta l’accoglienza (il sentirsi bene in parrocchia) e la partecipazione liturgica attiva (già per sé impegnativa); è richiesta una competenza, anche secolare, sulla vita quotidiana, da parte del sacerdote e degli operatori pastorali, che deve trasparire nella predicazione, nella qualità della celebrazione, nella coerenza delle proposte catechistiche e formative, se si vuole correggere l’impronta clericale della pastorale, che tende a fare della parrocchia un mondo chiuso ed autoreferenziale (il “parrocchialismo”). La formazione della coscienza personale dei cristiani, è dunque la questione pastorale fondamentale. La pastorale che non pone al centro delle sue preoccupazioni la formazione della coscienza cristiana, rischia di far percepire la parrocchia solo come un centro di servizi religiosi e un’agenzia sociale. Senza la formazione della coscienza i Sacramenti tendono ad essere vissuti in ottica soggettiva: non danno forma alla vita quotidiana, piuttosto ne rivelano drammaticamente la mancanza di senso; rischiano di essere fuga dalla realtà.

La fedeltà al battesimo comporta di dover rispondere ogni giorno alla  domanda circa la propria vocazione: “cosa vuole il Signore da me?”.

Compito della catechesi, realizzata nella RdV, è favorire un percorso di discernimento perché ogni cristiano sappia “vedere la storia come Lui, giudicare la vita come Lui,  scegliere ed amare come Lui” (RdC, 38), in modo che il senso dei propri comportamenti sia evidente anche di fronte al mondo. L’efficacia della testimonianza rimanda però ancora alla celebrazione perché non è mai la pastorale, per sé, ad essere efficace ma solo il Sacramento.

La liturgia cristiana trasforma la qualità del tempo e aiuta i credenti a coglierlo come tempo opportuno in cui decidersi per il Signore.

La formazione della coscienza non si riduce ad un adeguamento nei confronti della cultura del tempo: la profezia avviene sempre in termini critici. Le parole essenziali della liturgia come grazia, peccato, sacramento, gloria, salvezza, sono sempre più estranee alla coscienza comune. Alludono però alle esperienze che aiutano ad articolare il volto buono della vita, a rispondere nella speranza alle smentite quotidiane. Il rito interpella la coscienza personale perché definisce la fede come scelta fondamentale della vita e la pone costantemente avanti alle innumerevoli incombenze quotidiane che si presentano sempre come urgenti e necessarie, annullando di fatto il primo posto all’unica importante. La fede celebrata è garanzia di discernimento pratico nella complessità della vita.

La vita buona di Gesù è stata sintetizzata da Pietro come opera di guarigione e di liberazione (cfr. At 10,38). Gesù è l’”uomo per gli altri” (Dietrich Bonhoeffer) la sua esistenza donata, sempre tesa alla comunione e al servizio.

 

Elevare (Agire)

 

 

RdV

 

Il culto della vita

L’efficacia etica dei Sacramenti

Gesù, modello di vita piena

Elevare

(Agire)

Il rito che rinnova la vita

L’agire

La vita felice

 

L’immagine evocata dal verbo “elevare” esprime bene la concretezza della vita cristiana intesa come atto di culto, offerta sacerdotale al Padre di tutto ciò che si fa, quando si agisce nella fede in Cristo, trasparenti all’azione dello Spirito. In questo sacrificio la Chiesa diventa Corpo di Cristo, nel senso di farsi segno ed indicazione dell’assoluta trascendenza ed ulteriorità di Dio (elevare: sollevare in alto). La religione esoterica (e la pastorale centrata sull’affetto che ne deriva) opera invece in senso inverso: dalle forme rituali al piano dell’interiorità e dell’etica strettamente individuale.

Il rito cristiano rinnova la vita perché la offre, la mette a repentaglio, perché comprende la verità cristiana come la rivelazione più alta possibile dell’amore eterno. Non esiste altra gloria di Cristo fuor di quella del suo corpo elevato sulla croce ed esposto davanti al mondo come segno di contraddizione. La risurrezione è l’attestazione divina di questa verità. La coscienza morale non consiste semplicemente nell’esperienza dei valori, ma innanzi tutto nell’apertura al di fuori di sé. Al di là e prima delle norme morali e degli obblighi sociali c’è il volto dell’altro che chiama alla responsabilità. Senza il legame che si fonda sulla domanda di riconoscimento rivolto alla persona, non esiste la società. Il rito rinnova la società, il sacramento cristiano rigenera il mondo perché onora e dà gloria all’unico Padre e, così, riconosce e onora l’altro come fratello e non come avversario o estraneo.

L’agire liturgico (“actuosa partecipatio” SC) rappresenta ritualmente il valore dell’azione umana che scaturisce dall’elevare la propria vita a Dio. Ha il potere di tradurre la narrazione della fede in azioni vitali, generative per sé e per il mondo, ma quando il rimando alla vita concreta si indebolisce le persone tendono a farsi una religione a misura propria.  Il dato preoccupante della fede cristiana contemporanea è l’incapacità della professione di fede e della celebrazione liturgica di divenire principio efficace di stili di vita. La fede assume quasi inesorabilmente la forma di una “religione invisibile”, di un sentimento, magari anche profondo e sincero, incapace però di articolarsi in forme di vita, in testimonianza coerente, in parola profetica.

Prova di autenticità  per qualsiasi credenza è la qualità dell’esistenza che stimola e produce. La fede religiosa che si riduce a pura formalità, a folclore, a tradizione devozionale, tende a fermarsi ai livelli più individualistici e si presta, inoltre, a coprire l’immaturità psichica delle persone. La fede e la sua celebrazione autentica riportano Dio al centro della vita e del mondo: nella salute e non solamente nella sofferenza, nell’agire, e non soltanto nel peccato, nel vivere e non solamente nel morire.

La missione è il compito che la storia pone alla coscienza cristiana: non si tratta di “portare” il Vangelo nella storia come a volte suggeriscono certe espressioni del linguaggio della pastorale, che sembrano fare riferimento ad una teologia dei due piani: naturale (storia) e soprannaturale (missione). L’interpellanza alla libertà cristiana scaturisce dalla vita quotidiana, dalle sfide che si pongono continuamente alla coscienza morale e religiosa. Il sacrificio da offrire al Padre e a lui gradito è la storia umana stessa dove la comunità cristiana si espone davanti al mondo, intrecciando la propria vicenda di persone redente come  il lievito nella pasta.

La vita di Gesù è stata felice, perché in Lui i discepoli hanno visto brillare qualcosa dell’eterno di Dio stesso e con Lui è possibile guardare la morte in faccia senza più paura.

I discepoli che lo hanno visto vivere e morire come Figlio di Dio essi hanno potuto credere all’amore più forte della morte, hanno potuto tentare di amare come lui aveva amato, sperimentando, seguendo le sue parole, che c’è più gioia nel dare che ne ricevere (At. 20,35).

 

 

RdV

 

Il culto della vita

L’efficacia etica dei Sacramenti

Gesù, modello di vita piena

Assumere

(Vedere)

Il rito sublimemente “inutile”

La qualità della vita

La vita bella

 

Purificare

(Valutare)

 

Il rito che interpella

 

La formazione della coscienza

 

La vita buona

 

Elevare

(Agire)

 

Il rito che rinnova la vita

 

L’agire

 

La vita felice

 



[1] S. Weil, Quaderni 1