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L’amore del Cristo ci spinge (2Cor,14)

La forza propulsiva della gratuità

Questo primo arco del XXI secolo è caratterizzato dalle numerose sfaccettature della crisi economica, politica e sociale, dalla quale non sembra ancora risollevarsi. Lo sviluppo vertiginoso del nostro potere coincide oggi con la minaccia alla nostra sopravvivenza. Si avverte la necessità di un nuovo compito morale all’altezza della drammaticità del momento. L’umanità diventa la nuova posta in gioco dell’agire umano se si vuole imprimere una svolta all’“Antropocene”, l’era geologica attuale, nella quale la causa principale delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche è opera dell’uomo.

La civilizzazione della modernità ha perseguito le sue conquiste applicando alcuni convincimenti sostenuti sia dal pensiero filosofico sia dall’ideologia. Questi orientamenti sono poi diventati costume popolare. Essi sono tanto evidenti da essere individuati facilmente: “Possiamo avere un controllo unilaterale sull’ambiente, dobbiamo quindi adoperarci per raggiungerlo”, “Lo sfruttamento delle risorse della terra si può espandere all’infinito”, “Ciò che conta è il vantaggio del singolo”, “La tecnologia ci permetterà di realizzare in maniera compiuta il determinismo economico”. Nell’euforia consumista si è creata una situazione di contrapposizione di soggetti che possono sussistere solo nell’unità e nella collaborazione: “Noi contro l’ambiente, noi contro altri uomini”.

Queste idee si sono rivelate false. La contrapposizione tra individuo e società si è risolta privilegiando il primo. Massima felicità è diventato l’interesse individuale attraverso il contratto e il libero mercato. L’economia slegata dalla società ha favorito l’offensiva del neoliberismo fino alla grave crisi del 2008.

Il narcisismo dell’Io, l’arroccamento nella difesa dei privilegi, produce paradossalmente un’assolutizzazione del Noi: una comunità della paura con le sue derive etnocentriche e l’ostilità di numerosi cittadini verso il diverso e lo straniero. Il Noi è diventato un “pronome pericoloso” (Richard Sennett) per i suoi caratteri rigidi e autodifensivi, per il rischio dell’ossessione identitaria del comunitarismo ghettizzante.

Quanto più la società si riduce a mercato, tanto più nasce l’ossessione per l’identità. Nell’immunità dello spazio recintato, l’identità diventa tanto più irrigidita nel proprio isolamento, quanto più fragile e insicura. Nell’individualismo la paura è implosiva (ci si arrende come spettatori della globalizzazione), nel comunitarismo è esplosiva (prevale la paura irrazionale del diverso). Una società più complessa ma anche esposta a nuove minacce, richiede scelte e competenze aperte, coraggiose, articolate. La teoria dell’attore razionale ha presupposto il cittadino moderno come un soggetto egoista e calcolatore, ha inteso la razionalità come ricerca esclusiva dell’utile. Ci troviamo ora nella condizione di:

Pensare senza tregua un mondo che esce, in modo lento e brutale insieme, da tutte le certezze acquisite di verità, di senso, di valore.

L’utilitarismo generalizzato, celebrato dalla globalizzazione, non ha realizzato solo l’attenuazione delle frontiere ma in generale ha subordinato di tutte le dimensioni dell’esistenza alla sola legge del mercato. Ha posto l’economia reale alla dipendenza dei capitali speculativi. In questa direzione tutto diventa tendenzialmente merce, ricerca esclusiva di interessi individuali, dominio del mercato.

Considerare solo il vantaggio particolare, escludere dal mercato la generosità e il dono, non è però, secondo A. Sen, una scelta di efficacia. Costituisce piuttosto una limitazione arbitraria della stessa esigenza di razionalità.

Stanno fortunatamente aumentando anche le buone pratiche e i pensieri innovativi per passare dalla desolante lamentazione per le minacce che incombono, a un’attenzione verso l’umano comune, capace di prendersi cura del mondo.

Le relazioni interpersonali e la qualità della vita, la casa e la comunità sembrano ritornare al primo posto, nelle attese delle persone: il resto viene dopo, così si vorrebbe poter vivere. Si fa più avvertita l’esigenza e la nostalgia di valori umani e spirituali. Le amicizie e i legami ricoprono un nuovo ruolo, più sacro e vitale in una società sempre più individualizzata. Aumenta la consapevolezza che il legame trasforma gli individui in persone, ne fa degli attori sociali. A molti, le relazioni interpersonali appaiono le più sicure scialuppe di salvataggio. Si avverte più chiaramente il desiderio di tornare a ciò che è genuino, alle tradizioni, alla socialità, alla famiglia, alla fedeltà degli affetti, all’armonia con il cosmo. Rifioriscono le feste paesane, si riscoprono con rispetto le culture popolari.

Senza rifiutare la tecnica, si ricercano modi più autentici di lavorare, si denuncia l’alienazione di un’attività esclusivamente produttiva, si vuole qualcos’altro oltre il profitto, il reddito e la fatica che essi comportano.

Si ricercano i piccoli gruppi solidali, si ritorna a fare e costruire prima di comprare, si amano le cose fatte in casa, si custodisce e si conserva invece di consumare. La preoccupazione ecologica è sempre più avvertita (i cambiamenti climatici ormai non sono più una minaccia, sono diventati una realtà). L’economia non si cura soltanto più della produzione e dei consumi ma si propone di trattare anche gli scarti e le eccedenze. Diventa “circolare”: si assume la responsabilità di tutto il ciclo produttivo.

Cogliamo nei volti, nelle parole, nei semplici incontri quotidiani la nostalgia di nuova solidarietà, l’aspirazione ad ambienti di vita più vivibili. Quanto più una società diventa globalizzata, tanto più tende a manifestarsi per contrapposizione l’esigenza di protezione e di rifugio. Si cerca di ricostituire o inventare comunità che riproducano maggiore intimità, che soddisfino di bisogni di partecipazione e di democrazia reale.

Si moltiplicano le iniziative di reti familiari, non frutto solo dell’occasione ma strutturate progettualmente. In tutti i settori sta avvenendo un’inattesa riflessione sul dono. L’individuo calcolatore scopre che è anche capace di generosità.

Messo ai margini come residuo di un passato improponibile, il dono emerge come indispensabile all’azione sociale, incluse le relazioni di scambio.

La costruzione di una nuova società può cominciare dalla valorizzazione del dono, dall’analisi di ciò che lo rende generativo di legami solidi e solidali.

La maggioranza dei contributi che riflettono sul dono sembrano però diffidenti a proposito della sua gratuità. Ne colgono piuttosto l’ambivalenza propria delle cose umane. “Nel dono c’è sempre dell’altro: o la sudditanza perché non te lo posso rendere, o il bisogno di renderlo per liberarmi (U. Galimberti).

L’insistenza sul fatto che il dono non esiste senza contraccambio potrebbe però essere un segno della limitatezza anche teorica con cui il dono è ancora trattato nelle scienze sociali.

Le pagine che seguono cercano di inoltrarsi in questo impervio sentiero, alla ricerca non di soluzioni teoriche ma di indicazioni praticabili di vita.

Nell’ampia riflessione contemporanea sul dono s’incontra spesso un paradosso, posto come insolubile. C’è dono solo nella gratuità ma questa sarebbe umanamente impossibile. Non abbiamo forse ancora sufficientemente compreso ciò che l’affetto (il dono, senza calcolo, dell’amore) costituisce per gli individui e le società (anche economiche) (Cap 1 La svolta affettiva del nuovo mondo).

Il paradosso del dono si scioglie osservando ciò che avviene nelle relazioni primarie. I legami famigliari sono tutto fuorché esperienze pure e perfette. In ogni loro espressione, tuttavia, le persone si aspettano innanzi tutto la gratuità. Quando intravedessero la minima traccia di calcolo ( il “do ut des” dell’interesse) ne rimarrebbero deluse e offese, anche indelebilmente.

La nuova economia, che si sta preparando, i segnali di una rivincita del dono sulla società globalizzata del consumismo e dello sfruttamento. Chi dona lo fa perché ha consapevolezza di aver ricevuto molto (dalla fortuna della vita, dall’educazione, dalla fede). È la consapevolezza della gratuità del dono che rende le persone capaci di risposte libere. Il vero ostacolo è la smemoratezza: ritenere proprio quello che si è ricevuto.

È realistico il messaggio di Gesù che pone il dono come gratuità non all’inizio ma alla fine del processo (“gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” Mt 10,8).

Gratuità e responsabilità

Vinte le resistenze, superato il turbamento, nel dono avverrà una trasformazione, un passaggio di stato, una rigenerazione interpersonale e sociale.

Si sperimenterà la pienezza dell’umano, il completamento del desiderio di essere.

Questo sentimento profondo di esistenza riconciliata e pacificata è ben presente nel pensiero biblico neotestamentario. Viene indicato però con parole dall’etimologia molto chiara ma di difficile resa nell’idioma italiano. La traduzione indica come “pazienza” il concetto che l’originale greco indica con due parole: “macrothymia” e “hypomonè”.

Il Signore è paziente (macrothymei) verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento  (2Pt 3,9-15).

Questo atteggiamento interiore di fronte alla realtà è innanzitutto riferito a Dio. Egli potrebbe annullare il male e imporre la sua gloria. Non ha bisogno di resistere al potere avverso delle cose. Dio potrebbe distruggere i suoi nemici. Egli però è magnanime: pensa, sente “in grande” (“macrothymei”). Con la pazienza concede spazio e tempo, offre nuove possibilità, perché l’umano possa alla fine fiorire. In Dio non prevale la collera ma la grandezza d’animo: la grazia di trovare senso anche nella contraddizione e di dare significato anche al dolore. L’umano può sempre crescere ancora, si possono sempre raggiungere orizzonti più ampi nella qualità della vita personale e sociale.

La forza della pazienza è quindi la speranza. La vicenda umana, infatti, è mistero: contiene sempre una trascendenza: un “aldilà”, prefigurato in ciò che è “aldiquà”, sperimentato nella ristrettezza del quotidiano. Si colgono altre dimensioni: emergono le tracce del nuovo, le indicazioni della resilienza, i semi del futuro.

Il dono è sempre un’esperienza di rigenerazione sia per chi lo riceve sia per chi lo offre. L’inquietudine e il disorientamento per le difficoltà e sventure della vita sono così “rovesciati”. Il dono apre sempre percorsi di umanizzazione, rende più umane le persone e più giuste le istituzioni. Il dono quindi è il criterio dell’autenticità della vita, della verità dell’umano. Sentire la vita in grande (secondo il modello della misericordia), significa pensare in un unico sguardo la vita nel vigore e nella vulnerabilità, nella salute e nella malattia. Significa cogliere la “grandezza” della stessa condizione del bisogno. In questa “grande passione” germoglia anche la solidarietà, che si differenzia radicalmente dalla pietà, perché pone donatore e donatario nella medesima condizione.

Il dono autenticamente umano considera le persone come sono, nella loro concretezza, di persone assillate dai problemi della quotidianità.

Alla pazienza intensa come “sentire in grande” corrisponde la pazienza come azione di prossimità, nella donazione.

“Affinché mediante la pazienza (hypomonè)  (…) conserviamo la speranza” (Rom 15,4).

La parola greca “hypomonè” (tradotta “pazienza”) deriva da “hupò” (sotto) e “menein” (rimanere) e significa “continuare a restare”, “sopportare” nel senso di sup-portare (rimanendo non a lato, meno ancora sopra, ma sotto).

Nel linguaggio paolino l’hypomonè umano corrisponde al “sentire in grande” di Dio (macrothymia). La pazienza conduce (supporta) la lotta contro le avversità. È un’ostinata determinazione a rimanere, a lasciarsi toccare dal bisogno altrui, a non fuggirlo.

Esserci, non mollare, consegnarsi, dedicarsi sono le forme concrete del dono. Sono allo stesso tempo anche le condizioni della speranza: chi investe nel futuro non getta via il carico che porta, non lo abbandona, ma continua a rimanere. L’hypomonè è la risposta di chi si fa carico del bisogno dell’altro, se necessario, fino all’estremo.

Secondo la logica della “hypomonè”, fare dono significa assumersi la responsabilità dell’incontro personale con l’altro, prima di ogni sua etichetta e oltre ogni pregiudizio. Nell’incontro tra persone, conta “farsi prossimo”, cioè entrare in em-patia. È la disposizione che rende vicini a chi ha bisogno, la percezione di una base comune che si trova sia in chi è fortunato sia in chi non lo è.

La “macrothymia” è riferita all’attesa d’amore, l’hypomonè alla speranza. Macrothymia e hypomonè sono le condizioni della verità del dono, quelle che non umiliano ma esaltano.  La prima scardina i pregiudizi. La seconda fonda la solidarietà.