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Oltre il Pil: il «ben-vivere» fattore decisivo.

Se c’è una lezione economica da trarre dall’elezione alla presidenza degli Stati Uniti d’America di Donald Trump, repubblicano populista e fuori da ogni schema, è che dobbiamo mandare in soffitta il dibattito sui ‘decimali’ della crescita. Capendo una volta per tutte che la crescita del Pil, che tutti gli osservatori compulsano così ossessivamente, non è indicatore sintetico sufficiente per definire il successo di una classe politica e lo stato di salute una nazione.

In Irlanda nella scorsa primavera il governo in carica ha perso pur presentandosi alle elezioni con uno stratosferico tasso di crescita del Pil superiore al 6%. E il Regno Unito è arrivato al referendum sulla Brexit con una performance economica tra le migliori tra i paesi dell’Ue. Così negli Stati Uniti i democratici hanno affrontato le elezioni con un percorso in termini di crescita del Pil tutt’altro che negativo e con un mercato del lavoro ‘brillante’ che li ha portati quasi alla piena occupazione. «It’s the economy stupid» (è l’economia stupido), si diceva fino ad oggi indicando che quando l’economia fila tutto il resto funziona. In realtà l’economia non è tutto e rischia di essere niente quando il benessere economico viene misurato con gli indicatori sbagliati.

Sarebbe il caso di tener conto da questo punto di vista dei risultati degli ultimi decenni delle scienze sociali. Che sottolineano due cose fondamentali. La prima è che se restiamo al benessere economico e sociale, quello che conta non è il flusso di beni e servizi la cui produzione è contabilizzata in un determinato Paese (sottolineiamo contabilizzata perché nel caso dell’Irlanda l’elusione fiscale, che contabilizza valore creato in realtà altrove, ha giocato un ruolo fondamentale). Il benessere dei cittadini è piuttosto misurato dallo stock dei beni spirituali, relazionali, economici, ambientali di cui una comunità può godere in un determinato territorio. In concreto significa che i politici dovrebbero guardare altri indicatori come ad esempio il reddito disponibile delle famiglie dopo aver pagato beni e servizi pubblici essenziali, la quota di cittadini che hanno peggiorato/migliorato il loro accesso a sanità e istruzione, la qualità dell’ambiente in cui vivono, la sicurezza reale e percepita nelle loro città.

Al di là di questa dimensione c’è, però, qualcosa di ancora più profondo e sfuggente. Come le aziende che vogliono capire la soddisfazione dei clienti o dei dipendenti misurano la customer satisfaction o la soddisfazione dei lavoratori, così anche la politica deve abituarsi a leggere e interpretare i dati sulla soddisfazione e la ricchezza di senso di vita dei propri cittadini. Il dato sulla ricchezza di senso è uno dei meno esplorati e dei più importanti.

Ma gli esseri umani sono essenzialmente cercatori di senso e quando questo viene a mancare rabbia, protesta, ricerca disperata del nuovo pur di cambiare qualcosa finiscono per avere la meglio. Chi studia i dati sulla felicità sa che essi rivelano la presenza di una variabile invisibile che tutti gli indicatori ‘oggettivi’ non consentono di osservare: la variabile delle aspettative. La soddisfazione di vita è infatti un rapporto tra realizzazioni e aspettative. È pertanto paradossalmente possibile che le realizzazioni (ad esempio l’andamento oggettivo dell’economia) migliorino e si assista tuttavia a una riduzione della soddisfazione semplicemente perché le aspettative sono aumentate verso l’alto. L’importanza trascurata delle aspettative rappresenta un vantaggio per i candidati di opposizione, incluso i più improbabili. Infatti, mentre i governi uscenti fanno fatica a far sperare in qualcosa di più della continuazione di quanto fatto durante il precedente mandato, gli sfidanti, se abili imbonitori, possono promettere l’impossibile eccitando la fantasia e le speranze degli elettori.

Il successo elettorale di Trump appare dunque una combinazione dei due grandi elementi trascurati dagli analisti. La crescita del Pil, e persino la riduzione del tasso di disoccupazione, hanno mascherato un declino di ben-vivere, prodotto da una miscela di declino economico, riduzione della qualità del lavoro, paura del diverso, impoverimento spirituale e relazionale. E l’abilità dello sfidante di giocare sulla frustrazione e le aspettative dei cittadini ha fatto il resto. In Italia abbiamo imparato la lezione. Forse sì, se abbiamo costruito gli indicatori di benessere equo e sostenibile (Bes) per misurare il benvivere del Paese e se il Parlamento ha approvato qualche mese fa una legge che stabilisce che le ‘finanziarie’ dei governi debbano essere valutate anche con le lenti del Bes. Quanto al dopo voto risultato negli Stati Uniti, che si preannunciava comunque complicato, non resta che la speranza che la democrazia sia forte e che la politica di vertice conti meno di quello che sembra nei destini dell’umanità. Noi credenti amiamo dire che Dio scrive dritto nelle righe storte della storia. Stavolta dovrà impegnarsi veramente molto.
Leonardo Becchetti Avvenire 10/11/2016