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Evento-fondatore

La scena originaria dei vangeli è il modo originale e specifico che ha Gesù di comportarsi nella scena pubblica. Gesù annuncia il “Regno” che accade qui e ora, invitando alla conversione (Mc 1,14-15). Questo invito ha un’immediatezza che suscita impressione e ammirazione, mobilita e convoca le persone: “Dio c’è, ti chiama chiunque tu sia!”. Genera anche diffidenza e apprensione quando pretende di introdurre nell’intimità e nella confidenza inaudita con il papà-Dio. Questo messaggio inequivocabile e scandaloso è accompagnato da segni anche sensazionali di liberazione dal male, di esultanza e di giudizio caratteristici dei tempi escatologici.

Il tratto più clamoroso e contrastante è dato però dal contesto in cui si producono questi eventi: l’umiltà della compagnia di Gesù. È  un minuscolo gruppo di umili pescatori e di donne che li accompagnano. Il gruppo umano nel quale Gesù dichiara e esegue l’avvento della salvezza lo chiama “il popolo delle beatitudini”: sono i poveri, i provati dalla vita, i vulnerabili, gli oppressi. Ci sono anche gli esclusi: lebbrosi, samaritani, pubblicani, peccatori. A loro la speranza va annunciata per primi, perché si compia la parola profetica: “Misericordia io voglio non sacrificio”. Riconoscere l’opera di Dio in questa condizione e apprezzarla è chiamato “fede”: “Va, la tua fede ti ha salvata”.

L’annuncio inaudito è rivolto a tutti.  Quel che accade con Gesù qui e ora e per sempre è l’essere e il fare di Dio. Gesù vuole essere riconosciuto e creduto come rappresentanza di Dio, Abbà Padre (“Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). “Chi vede me vede il Padre” (Gv 14,9). La comunione con il Padre vale più di ogni legame: chiunque compie la volontà di Dio è fratello, madre di Gesù (Mc 3,35) .

La buona notizia incomincia qui. Il ripetersi di questa scena crea lo spazio in cui si decide la qualità della religione, che trasforma il mondo con la potenza dello Spirito Santo  (Lc 4,22).  La tensione che l’annuncio genera si capisce dalla pretesa con cui è formulata: “Io faccio le opere del Padre”. Nessun  profeta, innovatore o uomo religioso aveva mai osato pronunciare l’immediatezza di Dio nella sua persona. Il significato discriminante di questa scena originaria è stabilita da Gesù stesso davanti al Battista: “I ciechi recuperano la vista… Beato chi non si scandalizza” (Mt. 11). Giovanni stesso ne rimane perplesso: Gesù non porta traccia  del giudizio e della separazione dal mondo, come nella predizione del Battista. L’immediato della rivelazione è la scena  della confidenza e della conciliazione di Dio con i separati e i peccatori. Più che rivelazione della giustizia di Dio, il comportamento di Gesù è interpretato come dissacrazione della verità divina, subito rimproverata a Gesù:”Costui mangia con i peccatori!  Questa sua scelta rimarrà costante fino alla fine: sarà crocifisso tra due ladroni, e morirà intercedendo per i peccatori (Lc. 23,34). Gesù non annuncia il giorno di vendetta  Isaia (Is. 11,2) così come non vuole che un fuoco divori gli insolenti che lo respingono. Non così fece Eliseo (2Re1,10-14). La prima parola è come quella del Battista “Convertitevi” ma l’intonazione è festosa: il Regno è vicino. Il tema di ogni sua predicazione e opera è la prossimità della cura di Dio e la misericordia del suo amore. Tale è anche il forma delle parabole del Regno con le metafore del tesoro, della perla, della festa, del  banchetto. La fede di chi si abbandona alla rivelazione di Gesù si accompagna all’effetto delle energie che escono da lui guarendo. Capita così all’emorroissa (Mt 20,22) che ha osato l’inosabile: toccare un uomo religioso, da impura. Ha sfidato il catechismo della sua infanzia che raccomandava nascondimento e accettazione della sua malattia vergognosa.

La scena originaria  si ripete infinite volte con gli interlocutori religiosamente più  improbabili, per confermare la qualità  esatta ed esemplare della fede che respinge la complicità di Dio con il male e la sua disposizione a farsi incontro a ogni dolore umano. Andando, predicate e dite: Il regno dei cieli è vicino. Guarite gli ammalati, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni; gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non provvedetevi d’oro, né d’argento, né di rame nelle vostre cinture, né di sacca da viaggio, né di due tuniche, né di calzari, né di bastone, perché l’operaio è degno del suo nutrimento (Mt 10,7-10).Ci vuole del coraggio per consegnarsi totalmente alla verità della testimonianza di Dio resa da Gesù, nell’imbarazzo dei custodi della religione e nella sorpresa dei suoi fedeli, divenuti incapaci di pensare fiduciosamente e di credere altrimenti in Dio. È richiesta molta fede e la preghiera la domanda: “Signore aumenta la nostra fede” (Lc 17,5).

L’opposizione religiosa al Vangelo

La giustizia di Dio è l’agape che coincide con la sua verità: solo Dio è buono. Questa perfezione è impossibile agli uomini, eppure è necessaria.  L’agape di Dio vuole agire tra gli uomini e abitare il mondo, contro gli estremismi opposti: la separazione dalla vita e l’abbandono del mondo al suo destino e l’autoconservazione autoreferenziale della religione. La disposizione affettiva di Dio per la salvezza della creatura  (la cui espressione inaugurale è la creazione), fonda la giustizia e la libertà: “Dio vuole essere amato, non subito”. Nessuno è sottratto all’offerta della salvezza, nessuno può essere esonerato dal giudizio. Due qualità simboliche della salvezza: la liberazione dal male e la reintegrazione della prossimità. Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza (1Tim 2,4). Dio non fa eccezione di persona (At. 10,34).  Gesù crea una nuova comunità che attesta questa possibilità e necessità.

L’annuncio e l’effettività dell’Evangelo di Dio sollevano risentimento, ostilità motivati religiosamente.  È l’esperienza cristiana del tragico: “mistero d’iniquità” che travolge ogni progetto di conciliazione della religione umana con l’umanesimo di Dio. C’è un ingiusto dolore procurato al popolo delle beatitudini. L’estromissione della scena originaria dell’attuazione della giustizia di Dio falsifica però la fede, corrompe la religione: “Chi non pratica la giustizia non è da Dio, né chi non ama suo fratello” 1Gv3,10.

Il paradosso della scena originaria, la “bella notizia” e la drammatica via della croce stanno nel fatto che essa non è deducibile da alcuna ragione, neppure religiosa, all’altezza del dono incondizionato. La priorità affettiva di Dio ha quindi caratteristiche perturbanti per l’uomo religioso, dato che la giustizia di Dio coincide con l’agape.  Non mancherà qualcosa alla pienezza del dono,  nessuno riceverà di meno. Il ritorno del fratello più lontano merita per questo il banchetto di festa.

Fede e religione

La scena originaria dei vangeli  è una critica religiosa alla religione; ne smaschera la deriva autoreferenziale.  Gesù riprende la predicazione profetica, riconosce l’autenticità dell’antica via della parola di Dio e la disposizione che essa apre in vista del compimento all’adorazione in Spirito e verità.  La religione è radicalmente subordinata alla salvezza e alla giustizia di Dio. Dio si commuove e si muove incontro all’uomo. Il suo arrivo è festa per gli animi semplici, un dono inatteso per tutti. La scelta prioritaria dei poveri  e dei perduti corrisponde all’urgenza del loro riscatto.

La liberazione dal male e la prossimità sono opera di Dio. Il giudizio finale di Dio adotta come criterio il modo di porsi di fronte la giustizia di Dio. È possibile a tutti; non richiede un sapere iniziatico: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare…”.  La scena originaria della rivelazione di Dio  diventa regola di vita per i suoi fedeli.

La conferma di questa verità è incorporata nel crocefisso, totale corrispondenza alla volontà del Padre del legame della giustizia con l’agape per mettere fine ai sacrifici umani imposti in nome di Dio.

La forza del cambiamento, operato dalla scena originaria, può essere colta in tre figure: l’amore del prossimo (le opere della fede, il perdono del nemico (l’assoluto dell’agape), l’affezione umana (le metafore familiari). La mancanza di agape vanificare ogni qualità religiosa, anche le più spirituali, perfino il martirio e la fede che sposta le montagne. 1Cor 13: La potenza teologica di questo brano è sottovalutata. La verità-agape riscatta  ogni religione possibile (1Gv 3; 4,20 Giac 2,14 e distingue la fede cristiana in quanto religione. Il cristianesimo è stato costantemente riassunto nella religione della carità, amore al prossimo, riconciliazione dei nemici, dedizione ai vulnerabili.

La concentrazione sacramentale della scena originaria: l’Eucaristia

La scena originaria, essenza della pratica cristiana del “culto logico” (in Spirito e verità) può essere ristabilita ogni volta che l’eucaristia è celebrata. Essa plasma, come ultima cena e memoria della passione, la forma della comunità e l’intelligenza del mistero. Non è precisamente una commemorazione. È l’invisibile presenza del risorto che raggiunge i discepoli nell’atto (che è comandamento) di rendere effettiva, per loro e per i molti, la potenza della sua consegna alla morte. È il consegnarsi-offrirsi in sacrificio-comunione. Null’altro di più radicale può essere sperimentato nella storia. L’eucaristia, infatti, non ha sviluppo: è la stessa degli inizi.  La chiesa dell’eucaristia è la più reale che si possa dare, con il corpo di Gesù medesimo! Nulla di più diretto e reale di questo. Tutto il resto è sovrappiù. Andare a messa è il fattore determinante della qualità religiosa-cristiana della fede. In senso pieno l’uomo è davvero ciò che mangia. Nel pane di vita si diventa tutt’uno con il corpo del Signore. Agisce proprio come nella scena originaria della rivelazione  dove il popolo che partecipa, ascolta le sue medesime parole, è toccato dal suo stesso corpo. È ancora  guarito, consolato, liberato. La celebrazione eucaristica è l’origine di ogni sviluppo della comunità della fede, sul piano dei contenuti e della storia. Non è però mezzo per alcunché, poiché ha esclusiva ragione di fine.

Il contenuto dell’intimità cercata (come desiderio sommo Lc 22,15) è la consegna di sé perché accada ciò e come Lui vuole. Assume i ritmi e gli eventi della vita quotidiana. Non permette alcuna evasione. Sono richiesti quindi un rigoroso discernimento, una vigilanza costante. L’Eucaristia forma e riforma la chiesa perché la ferma intorno al corpo del Signore. Plasmata dalla presenza e dall’azione del Signore, comunità inoperosa. L’intera chiesa fa una cosa sola, uguale per tutti, si raduna intorno al Corpo, si nutre della presenza, ascolta la parola, proclama di non poter fare a meno e di non poter fare più di questo. Riconosce che nessuna delle sue parole può sostituire quella che il Signore le rivolge, né alcuna delle sue opere può trovare destinazione se il Corpo non ne definisce l’effettivo legame con la vita di Dio. Il legame al corpo del Signore non può essere sostituito da nessun altro rapporto, per la sua intrinseca ragione di fine: “Fate questo in memoria di me”, fino a che Egli venga.  “Quando se ne allontanano, diventano in tutto simili alla gente in mezzo alla quale vivono” (Clemente A.).

Nella cultura della secolarizzazione la sfera del sacro era indicata come residuo di una cultura arcaica al limite del superstizioso e magia. Il sacro tuttavia non può essere eliminato e anche oggi è più che mai attivo, con i suoi sentimenti e risentimenti ancestrali pronti a riaccendersi, con i suoi effetti distruttivi  e la sua capacità di attrarre nello stesso dominio puro e impuro, innocenza e colpa, amore e violenza, vita e morte. Egualmente rischiosa è la doppia dinamica della separazione (sacro = separato) e dell’assimilazione (integralismo). Il cristianesimo è così doppiamente contestato perché religione succube del sacro o perché con la sua catechesi inibisce la nuove possibilità del sacro (selvaggio). Il sacro requisisce quello che tocca: separa e universalizza. Senza rivelazione non c’è scampo: assoggettarsi o perire. L’intelligenza cristiana del legame indisgiungibile tra l’umanità del sacro e la fede evangelica è condizione essenziale dell’antropologia cristiana.

La novità biblica non comporta l’eliminazione dal sacro ma un modo singolare di viverlo e umanizzarlo consapevoli della sua insuperabilità. Disponiamo ancora di pochi strumenti per affrontare la nuova secolarizzazione e il pluralismo religioso, ma anche il permanere della “religiosità popolare” e della “religione civile”. Il sacro secolarizzato (che pensa di aver liquidato il divino ma che poi lo riproduce in ogni forma), genera continue forme di nuove “religioni” nei centri commerciali come nell’industria del wellness, nell’ossessione del fitness come nelle discoteche. Si sviluppano implacabili le sue sollecitazioni alla dedizione, le sue manie e i suoi divieti, insieme all’immancabile elenco dei sacrifici richiesti. Il sacro va abitato e affrontato nella sua ambivalenza, attraverso anche il difficile discernimento dell’ambiguità del valore di assoluto che il sacro produce.